Un anno di servizio civile in un istituto culturale può essere tante cose. Prima di tutto, come impatto forte per chi è alle prime esperienze, è l’ingresso in un ambiente di lavoro, con le sue dinamiche, le sue regole, i suoi orari. Il primo mese, anche qualcosa di più, l’ho passato così: ad abituarmi ad un ritmo di vita quotidiana nuovo. E con gli esami da finire, la tesi da scrivere, non è stato sempre facile.
Poi, elaborato lo shock iniziale, ho cominciato a guardarmi intorno con più curiosità, più interesse. La Fondazione Basso è un centro importantissimo di elaborazione di cultura e conservazione della memoria storica. Con una biblioteca e un archivio estremamente ricchi… una tentazione forte per un laureato in storia contemporanea!
Allora c’è stato l’innamoramento: il fondo Bogdanov. Decine e decine di lettere tra il filosofo russo, Maksim Gor’kij e altri organizzatori di quella che fu la scuola rivoluzionaria di Capri. Abbiamo schedato, tanto, abbiamo numerato o rinumerato documenti, ma poco alla volta quegli strani scarabocchi hanno cominciato ad avere senso. Leggere quella corrispondenza mi ha dato la sensazione di sbirciare da sotto la porta della storia, appassionandomi, battendo i pugni per quello che non si riesce a cogliere, afferrando con le orecchie tese quello che è rimasto al margine.
Il servizio civile è stato quindi, anche, conoscenza, ricerca, voglia di approfondire. Dai proclami di D’Annunzio durante l’occupazione di Fiume, alle lettere di rimbrotto di Turati a Nenni, fino ai periodici satirici o socialisteggianti del Lazio di fine ‘800.
Però così mancherebbe qualcosa. Ecco, questo mi sento di dirlo sicuramente: passare un anno alla Fondazione Basso non è cosa per semplici topi di biblioteca. Può capitare di tutto… persino di interpretare il giovane Basso in un documentario Rai! Però questo è un aspetto che è meglio non approfondire, date le mie scarse doti attoriali.
Ma è un’esperienza che richiede una presenza viva anche per un altro motivo: lavorando ti scontri e ti incontri con una moltitudine di persone, dalle provenienze e storie più diverse. È così sempre, certo, ma in un luogo di lavoro non si può semplicemente sbattere la porta, dire non mi interessa. Bisogna riuscire a starci. Una sfida ineludibile anche per il clima accogliente e amicale che si respira in Fondazione. Questa è stata una prova preziosa.
Ho scritto che la Basso è un motore di iniziative e proposte culturali. E questo è senz’altro vero, ma certo non sempre lo si vede da dietro le quinte, catalogando microfilm o schedando documenti d’archivio. E proprio quando la routine sembrava sovrastarmi, sono arrivati due eventi a cambiarmi prospettiva ancora una volta. A febbraio la presentazione pubblica del «Forum sulle disuguaglianze» e a marzo un convegno internazionale su «L’attualità del Capitale». Il mio ruolo quotidiano, che scherzosamente ho definito di «bassa manovalanza della cultura», mi si presentava così in un’ottica diversa, di apertura all’esterno, di ricerca di dialogo con la società. Le centinaia di persone che hanno frequentato la Fondazione in quei giorni, di diversa provenienza, coinvolte e curiose, mi hanno dato il senso reale del lavoro di un’istituzione culturale.
Tre mesi e questa esperienza finirà. Non uscirò da qui portandomi dietro i «santini» di Lelio Basso. I rapporti e le storie… questo sì. La capacità di sporcarmi un po’ le mani. La consapevolezza che lo studio, la sapienza, senza rapporto, non valgono nulla.
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