Avevo da poco appeso al chiodo la corona d’alloro quando ho deciso di partecipare al bando per il Servizio Civile, sentivo la necessità di dare una scossa alla mia vita, di prenderne le redini e di migliorarla. Ho subito pensato che l’ambito in cui avrei potuto essere più utile era quello della valorizzazione del patrimonio culturale e così ho scelto un progetto della Fondazione Basso, in cui mi sarei messa alla prova con libri, documenti, microfiches.
Nel nome del progetto che da cinque mesi sto affrontando con grande entusiasmo ci sono due parole su cui penso valga la pena soffermarsi: futuro e memoria. E cosa sono, il futuro e la memoria, se non i punti di snodo di un cambiamento? Ci ricordiamo chi eravamo, chi siamo, cosa facevamo, cosa facciamo e ci proiettiamo nel futuro, verso quel cambiamento che a volte può fare paura, può spaventare, ma che ci attrae così tanto da non poter fare a meno di conquistarlo. Cinque mesi possono sembrare pochi, eppure, in questi mesi alla Fondazione, di cambiamenti in me ce ne sono stati. Prima di qualsiasi altra cosa, mi sento di dire con estrema sincerità di aver trovato un ambiente lavorativo che definirei senza esitazioni una “grande famiglia”, un gruppo di persone che sin dal primo giorno ha trasformato la mia paura di lanciarmi in un’esperienza del tutto nuova in un’esperienza che, invece, vivo quotidianamente con estrema serenità. Se all’inizio, infatti, di fronte ad un’attività che non avevo mai affrontato come catalogare un libro o un periodico, temevo di sbagliare e avevo mille dubbi che facevo fatica ad esternare, in pochissimo tempo ho imparato a non temere di lanciarmi in un’attività del tutto nuova per me e, soprattutto, a non sentirmi mai inadeguata. Ho capito che il miglior modo per sfruttare al massimo questa opportunità e il miglior modo per imparare sul campo è domandare continuamente ed è così che ho fatto con Maurizio, il bibliotecario della Fondazione, che con estrema pazienza ha sempre soddisfatto ogni mio dubbio, rassicurandomi anche quando dicevo di non essere capace di fare qualcosa. Oggi, infatti, posso dire che ciò che preferisco è proprio mettermi di fronte ad una pila interminabile di periodici, sfogliarli e catalogarli: proprio quella cosa che nelle prime settimane mi spaventava moltissimo e che temevo sempre di sbagliare.
Alla Fondazione Basso ho anche avuto modo di emozionarmi: ricordo benissimo quando qualche settimana fa, sfogliando la corrispondenza estera della Fondazione negli anni ‘90, mi sono trovata fra le mani una lettera firmata di proprio pugno da Nelson Mandela. Ho impiegato un po’ a realizzare che fosse proprio lui, proprio quel Nelson Mandela che avevo sempre letto e studiato nei libri di scuola. Una volta superata l’emozione iniziale non ho potuto fare a meno di pensare a quale straordinaria fortuna stessi e stia tutt’ora avendo.
In questi mesi è cambiato anche il mio modo di approcciarmi al lavoro, che è diventato molto più preciso e puntuale. Per offrire un servizio che sia davvero d’aiuto al territorio, con l’archivista della Fondazione, Simona, ho imparato a non tralasciare nulla, a resistere se dietro ad una firma incomprensibile non ho idea di chi si celi e a fare mille ricerche, che possono durare ore (e in alcuni casi anche giorni, come è successo) finché quel nome non viene fuori. Si è rafforzato il mio senso critico, indispensabile per compiere al meglio qualsiasi tipo di lavoro archivistico e ho capito che ciò che conta è avere sempre un atteggiamento positivo e, soprattutto, propositivo.
A tal proposito, mi fa piacere ricordare e condividere un episodio di sole tre settimane fa, quando insieme a tutti i membri della Fondazione ho partecipato ad una giornata in ricordo di Linda Bimbi all’Istituto San Michele, organizzato a Roma con il supporto dell’VIII municipio. Linda è stata uno dei pilastri della Fondazione, dal 1973 ha affiancato Lelio Basso nel Tribunale Russell II sull’America Latina per poi dedicarsi alla segreteria generale della Fondazione e divenire un punto di riferimento dei tanti perseguitati di tutto il mondo in cerca di mediazioni per quella visione liberatrice che Linda ha impersonato per diversi decenni. Dopo l’affissione della targa in ricordo di Linda, quel giorno ho avuto il piacere di ascoltare e cantare canzoni brasiliane e africane, di assaggiare piatti tipici libanesi e brasiliani e, soprattutto, di riflettere di fronte alle parole di un giovane ragazzo nato nell’Isola di Gorée che a ritmo del suo tamburo djembe ci ha fatto ballare e cantare una canzone nata proprio in quella sua stessa isola, che per secoli è stata “l’isola degli schiavi”. Nella sua isola, lui ci ha detto, oggi regna la pace, ma il suo desiderio più grande è continuare a girare il mondo con la sua musica e portare il suo messaggio di pace in ogni continente.
È con le parole di questo ragazzo e con quelle di Linda, che già dai primi giorni alla Fondazione ho avuto modo di leggere, che ho fatto ancora più miei due concetti a cui mi sono sempre sentita particolarmente legata, sia per educazione familiare, sia per studi personali. Mi riferisco ai concetti di memoria storica e di inclusione.
Linda diceva infatti che non puoi comprendere davvero il mondo se non lo guardi anche dal punto di vista degli esclusi e degli ultimi. È questo il messaggio più trasparente che in questi cinque mesi i documenti, le lettere e le carte hanno consegnato alla mia memoria, così come fanno con quella di chiunque decida di consultare il materiale conservato nella biblioteca e nell’archivio della Fondazione. Io di tutto questo farò grande tesoro, per me, per il mio futuro personale e, spero, lavorativo, e per quello delle persone che incontrerò.
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