Mi chiamo Aida, ho 27 anni e sono terrona. Ecco se mi dovessero chiedere di descrivermi, credo che queste siano le prime tre cose da sapersi sulla mia persona: porto il nome di una delle opere liriche verdiane più amata nel mondo (anche nelle Filippine dove la mia nonna paterna – che purtroppo non ho mai conosciuto – ne amava cantarne le arie); ormai più vicina ai 30 che ai 20 anni, vivo una fase di transizione tra il cazzeggio del fior fiore degli anni e il senso di responsabilità che l’età impone; e sono terrona, ma questo è un capitolo a parte.
Nata sulla sponda calabrese dello Stretto di Messina da genitori filippini, sono cresciuta facendo mie le tradizioni di entrambe le culture: madrelingua italiana, parlo il filippino ma ancora meglio “u dialettu i RIggiu”, adoro il riso come tutti gli asiatici ma lo preferisco sottoforma di arancini… insomma la mia, da sempre, è stata una storia di integrazione: a scuola, nel tempo libero, a Milano (quando decisi di trasferirmi per studio) ed ora, nel mio Servizio Civile.
Forse mi sono dilungata un po’ per descrivere la mia storia personale ma non potevo prescindere da questi dettagli fondamentali per raccontare al meglio la mia esperienza al Servizio Civile.
Dopo qualche anno passato a barcamenarmi tra i libri dell’università, lavoretti saltuari e un’incertezza sul futuro che mi ha spinto sempre più verso il pragmatismo dei secondi che al sogno dei primi, circa un anno fa in questo periodo ho deciso di fare un cambiamento drastico nella mia vita e di trasferirmi in Valcamonica, sul meraviglioso lago d’Iseo, per amore… sì, per amore (esistono ancora i romantici). Qui si apriva un nuovo capitolo della mia storia di integrazione: mi sono chiesta come avrei potuto questa volta conoscere la gente del posto, capirne i luoghi, i modus vivendi, le tradizioni, i cibi, i costumi, il dialetto camuno, e non ultimo l’ uso appropriato del “pota”. La risposta è arrivata una sera di maggio in cui, scorrendo la bacheca di Facebook, lessi il comunicato stampa dell’Auser di Pisogne (provincia di Brescia) in cui si cercavano volontari per il Servizio Civile 2016/2017 e mi sono detta “perché no?”, in fondo già qualche anno prima mi ero interessata ma non avevo fatto la domanda e visto il limite di età, visto il contatto con la gente del posto che avrei potuto avere e visto l’aspetto economico e non ultima la necessità di sentirmi veramente utile e responsabile, decisi di cogliere la palla al balzo e vedere cosa mi aspettava.
Devo ammetterlo, non conoscevo l’Associazione, non l’avevo mai sentita nominare né sul mio cammino a Reggio Calabria, né a Milano, (eppure è diffusa a livello nazionale con più di 1500 sedi, è mia coscritta e vi operano più di 44mila volontari), ma quando ho letto sul progetto che avrei avuto la possibilità di stare a contatto con gli anziani è apparso un grande sorriso sul viso di questa orfana di tutti e quattro i nonni.
E su quest’ ultimo punto e sul mio bisogno di integrazione ho incentrato tutto il mio colloquio selettivo con Manuela di Arci Servizio Civile Lombardia: credo che quello sia stato uno dei miei migliori colloqui, senza tensione e finalmente uno in cui mi veniva chiesto chi volevo essere, chi volevo diventare e cosa volevo davvero fare.
Alla fine Manuela mi disse: “Potrai dare tanto ma riceverai molto di più”.
E’ vero, quel 7 luglio non feci caso a quelle parole, ma oggi riecheggiano nel mio quotidiano a Pisogne.
Il primo giorno di servizio avevo un po’ di timore, così arrivai in sede con un’ora di anticipo ma non entrai subito: l’ufficio apre al pubblico alle nove ma volevo sbirciare, senza farmi vedere, le azioni di chi avrebbe condiviso con me un anno della mia vita… in fondo 30 ore settimanali voleva dire che sarebbe diventata la mia seconda casa. Un gesto mi colpì: era la mia Olp, Anna, che dopo aver annaffiato una pianta la metteva con cura all’ombra, al riparo dalla luce diretta del sole. Era un gesto che sapeva di attenzione, di protezione, di casa. Col senno di poi, non ci sono andata tanto lontana: all’Auser di Pisogne ho trovato una seconda famiglia. Quel giorno non immaginavo quante emozioni avrei potuto vivere in un anno che è volato troppo in fretta, credevo che avrei avuto solo le ordinarie mansioni da stagista: fotocopie, telefonate, stesura di documenti. Non immaginavo che avrei potuto trovare dei volontari che ogni giorno mi salutano con un sorriso o che scherzano come fossi una loro nipote; non immaginavo di trovare un’amica con cui poter parlare di lavoro e confidare le cose personali; non immaginavo di poter crescere e accrescere la mia disponibilità, la mia pazienza e il mio senso di responsabilità ma soprattutto non immaginavo nemmeno di poter essere così utile per una nonnina che aveva bisogno di prenotare una visita al C.U.P. o di esser accompagnata a questa o a quella visita dal dentista.
Ho capito che il “come stai?” non è una domanda che va fatta solo per rompere il ghiaccio.
Ho re-imparato ad ascoltare: le storie, le parole, i silenzi e le pause… perchè te lo insegna chi ha bisogno.
Ho imparato ad esser gentile.
Ho imparato a non risparmiarmi.
Ho capito che ciò che può essere scontato per me non lo è assolutamente per l’altro.
Ho capito che la Storia è fatta di storie e la Memoria è il dono più prezioso.
Ho capito che il pregiudizio si alimenta con l’ignoranza.
Ho imparato ad empatizzare e non compatire chi è più fragile di me.
Ho ricevuto da tutti più di quanto ho potuto dare e nessuna sensazione ti appaga come quella di vedere negli occhi o sentire nella voce di chi hai aiutato un profondo senso di gratitudine.
Ho riso, sorriso, scherzato, trascorso ore di allegria nei vari momenti di aggregazione, delle volte mi sono anche arrabbiata (del resto, succede anche nelle migliori famiglie), mi sono commossa… ho imparato a mangiar la polenta, i casoncelli, le spongade, a bere il vin brulè, e qualche canto popolare (anche se su l’uso del “pota” ci devo ancora lavorare), ma ho anche portato i cannoli siciliani in ufficio ed insegnato l’uso dell’esclamazione “minchia” a qualcuno: mi sono arricchita ogni giorno di ogni sensazione mi venisse regalata.
E oggi provo un profondo senso di gratitudine verso me stessa per non essermi mai risparmiata in termini di emozioni e verso chiunque abbia reso il mio percorso così speciale. Perché alla fine non importano il sesso, l’età, la provenienza o la lingua che si parla, ma i valori come rispetto, bene comune, disponibilità, empatia… e quelli sono universali.
Aida