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Storytelling: NONNO RACCONTAMI UNA STORIA

Storytelling: NONNO RACCONTAMI UNA STORIA

Di seguito, il racconto elaborato dai Volontari di servizio civile del Circolo Arci La Scintilla di San Nicola da Crissa (VV). Buona lettura!

“Per trovare la mia pace sono dovuta tornare”
Chiamarsi Maria Rosaria e vivere in un paese calabrese di 1200 abitanti non è proprio il massimo. A 17 anni la vita al mio paese non è quel che si dice allettante, chi è rimasto è un eroe e chi è andato via ha preferito scappare lontano. Effettivamente rimanere sarebbe stata una vera e propria tortura. Tutto mi stava stretto, il paese, la mia scuola, soprattutto la mia famiglia. Sono figlia unica, ho quindi sempre vissuto da sola coi miei genitori, mia mamma era, e purtroppo non è cambiata, la classica mamma-rompi che pretende la perfezione in tutto, nei voti a scuola, nella pulizia di casa, negli orari di rientro quando uscivo. Vedermi seduta sul divano per più di 3 minuti le provocava inquietudine, dovevo essere sempre operativa e attiva, per non ascoltarla preferivo uscire. Mio papà invece era la tranquillità fatta persona, un po’ succube della mamma ma con un’immensa capacità di ascoltarmi, l’unico ad avermi capita da sempre. E poi c’era la nonna, non abitava con noi ma i miei genitori andavano a trovarla tutti i giorni; io ci andavo il meno possibile, e cioè i primi giorni del mese, quando la nonna prendeva la pensione e mi regalava i “50 euro per il gelato” di nascosto dalla mamma. In ogni caso, non sopportavo nulla di lei e della sua casa! In realtà non sopportavo nulla di nulla, a 18 anni ho preso immediatamente la patente, per poter uscire appena fosse stato possibile, non lontano ma almeno fuori da lì. Dopo l’esame di maturità classica, non ho avuto dubbi su cosa fare, le mie idee erano chiare, non ho minimamente preso in considerazione l’idea di iscrivermi ad una università vicina e fare la vita da pendolare tutte le settimane: anch’io sono stata codarda, anch’io sono scappata! Ho cominciato la vita universitaria con grande entusiasmo, non ho fatto fatica ad adattarmi alla grande città, era quello che desideravo da anni, ed esserci finalmente dentro era magnifico. Il primo anno è andato meravigliosamente bene, ho scelto storia e filosofia e sono riuscita a dare tutti gli esami, uscivo spesso e ho trovato nuovi e interessantissimi amici. Al secondo anno però dopo essere rientrata in città dalle vacanze natalizie, ho cominciato a notare che qualcosa non andava, mi sentivo felice ma non lo ero davvero e non riuscivo a rendermene conto, nascondevo con tutte le mie forze che casa mi mancava davvero tanto, anche se non l’avrei mai ammesso soprattutto a me stessa. Neanche sotto tortura. Ho cominciato a soffrire di attacchi d’ansia e inquietudine, mi mancava qualcosa e il vuoto che avevo non riuscivo a colmarlo con nulla. Adoravo studiare, adoravo la città; ma la città ricca di tutto, d’arte, di luci, di divertimento, era povera di quel che avevo bisogno io. A febbraio ho cominciato a lavorare in un pub e ho diviso il mio tempo tra lezioni, studio e lavoro, pensando che si, probabilmente era quello che mi mancava: la mia piccola indipendenza da integrare ai soldi che papà mi mandava ogni mese. Ma a nulla è servita l’autonomia economica, il vuoto non si riempiva mai. “Forse è l’amore mi dicevo, forse è proprio quello che mi manca, in fin dei conti non mi sono mai impegnata con un ragazzo”. Ho frequentato qualcuno per un po’ ma non ci stavo bene davvero, e ho fatto presto a tagliare corto. Al telefono cercavo di non far capire nulla alla mamma, cercavo sempre di essere vaga e dicevo di star bene, che ero solo stanca per il lavoro e lo studio. Lei mi raccomandava di mangiare e di lasciare il lavoro, di concentrarmi solo sullo studio, io dicevo che ce la facevo benissimo, lei insisteva, e finivamo per litigare. Così tutto le sembrava normale e non si preoccupava. Perciò ho deciso di non tornare a casa fino alle vacanze estive, con la convinzione che la ‘’cura al mio male’’ non avrei potuto trovarla a casa mia. Così alla fine di luglio dopo aver fatto gli ultimi esami e aver preso le ferie, ho raccolto le mie cose nella valigia, poche cose, con l’idea che in Calabria non mi sarei fermata molto, giusto qualche settimana per andare a mare e prendere un po’ di colore. Presi il treno la mattina del 9 luglio e arrivai a Lamezia nel primo pomeriggio, vidi mamma e papà dal finestrino del treno e provai una sensazione di calore meraviglioso, e non certo per il caldo soffocante di luglio ma per la gioia dolcissima e fortemente inaspettata nel vederli dopo sei mesi. Scesi dal treno trascinandomi lo zaino e la valigia e vidi papà venirmi incontro, mi raggiunse e mi prese subito la valigia dalle mani mi baciò la fronte e mi abbracciò come solo lui sa fare, ed io fui così felice di sentirlo dopo tanto tempo e ricambiai la stretta cercando di metterci tutto il bene che gli voglio. Dietro di lui guardavo la mamma che mi sorrideva. Allora mi sciolsi delicatamente dall’abbraccio di papà desiderosa per la prima volta nella vita (da che mi ricordi), di abbracciare forte anche lei con tutto il mio cuore. Lei forse stupita più di me mi accolse nelle sue braccia e io sentii il suo profumo bellissimo di frutta e di torta appena sfornata e li non riuscì più a contenere le lacrime, non so quanto tempo fummo ferme in quell’abbraccio, ma piansi tutte le mie lacrime, quelle che non avevo accettato per così tanto tempo. Lei mi accarezzava i capelli, una cosa che credo non facesse da quando avevo cinque anni, anzi, che io non le ho lasciato mai fare. Alzai la testa e la guardai negli occhi, anche lei aveva pianto e mi fece un bellissimo sorriso tra le lacrime. Dopo esserci ricomposte, tutti molto increduli ci dirigemmo verso la macchina, salimmo su e ritornammo verso casa, in macchina non smisi un attimo di parlare. Arrivati in paese andammo subito a salutare la nonna che non sapeva del mio arrivo, come sempre era seduta sullo scalino vicino casa; di solito si vestiva sempre tutta di nero ma, ogni tanto, d’estate osava indossare anche qualche camicia bianca con la gonna nera a vita alta e le scarpe décolleté con un po’ di tacco. La nonna non era la classica anziana di paese, era diversa, era elegante, ha sempre portato i capelli bianchissimi stretti in una treccia che le cadeva sulla spalla. La mamma ha sempre cercato di convincerla a tagliarli quei lunghi capelli ma lei non ha mai voluto; gli occhi verdi uguali a quelli della mamma e quindi ai miei, le mani rugose segnate dal tempo e dal lavoro ma sempre pulitissime. Rimase di stucco quando mi vide scendere dalla macchina, mi avvicinai e mi abbassai a salutarla, la baciai sulle guance e lei accarezzò le mie con immensa dolcezza. Mi chiese subito se avessi mangiato e quando sentì la risposta si indignò immensamente coi miei perché non l’avevano avvertita che sarei arrivata, dopo avermi analizzata attentamente per qualche minuto e aver decretato che ero troppo magra corse in cucina a cucinare l’impossibile. Per la prima volta mi proposi di aiutarla insieme alla mamma, e papà andò a casa a posare i bagagli, quella sera mangiammo tutti insieme e invitammo anche le due anziane signore, vicine della nonna, che vivevano da sole come lei. Fu una serata bellissima, mi lasciai andare con la mia famiglia come mai avevo fatto, ascoltai i racconti della nonna e delle sue amiche, mi fecero ridere e divertire come nessuno dei miei specialissimi amici cittadini sapeva fare. Quando tornammo a casa dopo essermi fatta una doccia mi misi a letto con la voglia di dormire per ore, ero distrutta, ma mi ero troppo abituata al caos della città che il silenzio e la tranquillità che regnavano nella mia camera mi davano inquietudine e non riuscii ad addormentarmi subito, così cominciai a fare i conti con me stessa. Pensai alle sensazioni che avevo provato quando ho rivisto la mamma, a come non ci fosse stato bisogno di spiegare nulla; a come la mia famiglia avesse accolto le mie lacrime e il mio sfogo senza riflettere troppo. Pensai al sorriso di papà, alla nonna, alla sua voce, alle sue mani che stringevano le mie, a come tutte queste cose io non le avessi mai permesse prima alla mia famiglia. Non avevo mai permesso di gioire davvero nel vedermi, mai di assaporare la mia presenza tra di loro, ero sempre scappata via. Una cosa mi divenne chiara, per stare davvero bene fuori dal mio paese dovevo imparare prima a starci bene dentro, dentro la mia casa, con la mia famiglia. Quell’estate conobbi più cose di loro che in tutti i miei 20 anni di vita. Andammo al mare insieme e qualche volta portammo anche la nonna, che si sedeva sulla sdraio e faceva sedere me sulla sabbia davanti a lei, appoggiavo la schiena alle sue ginocchia, così lei mi poteva pettinare i capelli e intrecciarli allo stesso modo in cui intrecciava i suoi. Io mi abbandonavo a quella tenera carezza e chiudevo gli occhi, era come se lei ci mettesse qualcosa di particolare in quella treccia; sarà stata una mia impressione ma i capelli sembravano più belli dopo che era stata lei a toccarli. Avevo preso l’abitudine di andare a trovarla quasi tutti i giorni nel primo pomeriggio così prendevamo il caffè insieme, e lei mi aspettava seduta sullo scalino all’ombra. I pomeriggi che passavo da lei erano piacevoli e volavano via troppo velocemente, così che il giorno del mio ritorno in città si avvicinava minacciosamente. Coi suoi racconti la nonna mi fece scoprire particolari del mio paese e della mia famiglia di cui io non ero mai venuta a conoscenza; mi parlò persino di posti che io nemmeno sapevo esistessero. Allora in uno di quei pomeriggi decisi di portarla in giro e lei mi fece da guida nei meravigliosi boschi, fiumi e piccoli laghi che circondano il mio paese. Alla fine decisi di prolungare di un altro paio di settimane la mia permanenza a casa, ora che avevo ritrovato la mia famiglia era difficile lasciarla di nuovo. Così una domenica che portammo la nonna a mangiare da noi passai tutto il giorno ad osservarla in silenzio, era strana, diversa, parlava poco, i suoi sorrisi di solito caldi, di quelli che illuminano gli occhi, quel giorno erano brevi e fugaci. Era il 25 luglio. Dopo pranzo volle lavare i piatti insieme a me ed ebbi l’occasione di parlarle, era troppo strano vederla in quel modo. Le chiesi più volte che cosa avesse e lei mi ripeteva che andava tutto bene, glielo chiesi fino a sfinirla, alla fine cedette e si fermò, si sedette e chiuse la porta della cucina. E a testa bassa mi disse piano: ‘’Oggi è 25! Da quarant’anni, ogni anno, in questo giorno, io perdo la forza!’’. Rimasi folgorata … le chiesi perché e la nonna divenne un fiume di parole e per un bel po’ non ci fu bisogno di chiederle nulla, raccontò a me tutto quello che per quarant’anni aveva tenuto dentro di sé. Mi raccontò della sua storia d’amore col nonno, di come avessero un rapporto speciale, di complicità e di amore profondo, di come il nonno era stato un galantuomo, di come l’avesse sempre rispettata ed adorata. Nessuno me ne aveva mai parlato prima. E dalla luce negli occhi che aveva la nonna mentre me ne parlava capì che tutto era vero, che mi stava raccontando tutto con estrema sincerità. Alla fine mi raccontò di come il nonno aveva deciso di partire per l’America in cerca di fortuna, mi disse che stavano bene economicamente ma che volevano fortemente un futuro migliore per il bambino che la nonna portava in grembo, futuro che non potevano trovare in un piccolissimo paesino calabrese. Decisero di comune accordo che la nonna sarebbe rimasta a casa, e qualche mese dopo il parto sarebbe partita anche lei per raggiungerlo. Mi raccontò dell’ultimo giorno che passarono insieme, del saluto prima che lo accompagnassero alla stazione per prendere il treno per Genova dove avrebbe preso la nave per gli Stati Uniti. Alla fine la nonna mi disse che il nonno si imbarcò nella terza classe dell’Andrea Doria il 17 luglio del 1956. E lì non ci fu più bisogno che mi spiegasse nulla … capì tutto da sola senza che lei aggiungesse altro. Il nonno non era sopravvissuto al naufragio. Piangemmo insieme e rimanemmo in silenzio per un po’, vicine come mai eravamo state. Dopo essersi ripresa mi disse: ‘’ Sai perché da sempre porto i capelli in questo modo? Era tuo nonno ad intrecciarmeli tutte le mattine. E da quando lui non c’è più lo faccio da sola, ogni mattina da quarant’anni insieme ai capelli intreccio il dolore per non averlo più con me. Lo chiudo nella treccia così mi viene più facile vivere. Ma oggi proprio non ce la faccio.’’ Da quel giorno in poi non sprecai più un attimo con lei e con la mia famiglia. Li ho amati e li amo come meglio posso. La storia dei miei nonni mi ha toccata profondamente, e anche ora che sono una donna con una famiglia mia, oggi che la nonna non c’è più da tempo, ogni 25 luglio mi ricordo di loro. Penso all’ amore e dopo aver conosciuto la loro storia ho desiderato un amore meraviglioso come quello dei miei nonni. Per molto tempo mi sono rammaricata del tempo che ho perso a sentirmi superiore alla mia famiglia, al mio paese e alla mia terra, dopo quell’estate il ‘’mio male’’ è passato e sono tornata a casa ogni volta che ho potuto. Mi sono impegnata per il mio paese, per dargli valore, ora ci vivo e ci lavoro. Questa non è una storia, non è un racconto, non ha un finale! E’ un invito, a chiunque! Un invito alla scoperta della propria famiglia, della propria terra, so di persone che non desiderano altro che scappare da questa regione maledetta, anch’io l’ho fatto, anch’io sono scappata, anch’io ero in guerra, con gli altri e con me stessa … e per trovare la mia pace sono dovuta tornare!