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Storytelling: OFFICINE CULTURALI

Storytelling: OFFICINE CULTURALI

I Volontari di Officine Culturali, nell’ambito della formazione specifica svolta su comunicazione e progettazione, hanno elaborato questo racconto.  Si ringrazia Maria Scaramuzzino per il sostegno e la passione profusi.

Buona lettura!

Quella che racconteremo è una storia incastrata tra un passato presente e un presente futuro. La storia di un giovane e del suo legame con il passato e con una terra che non conosceva.

«150 pesos, porca miseria!» imprecò José passando un fazzoletto sulla fronte per detergersi il sudore dovuto all’afosa serata cubana. Le stelle brillavano nel cielo tetro, mentre i famigerati mosquitos facevano la ronda per le strade semideserte.

José passò le tozze mani tra i lunghi riccioli mori e serrò i profondi occhi scuri emettendo un ampio sospiro. Il resoconto della serata era in linea con quello delle ultime settimane; soltanto la voce ‘punture di zanzare’ aveva avuto una penosa impennata rispetto alle notti precedenti. Tale risultato era altamente visibile sulle olivastre braccia di José.

La decisione di ritornare per qualche tempo nella terra natia dei genitori, oramai, non era soltanto una possibilità, bensì una necessità per cercare di mantenere in vita il ristorante, sempre più avviato verso la chiusura. Quel corso d’aggiornamento sulla cucina e la tradizione italiana, tenuto in una cittadina del meridione d’Italia, che si sarebbe svolto da lì a poche settimane, rappresentava l’ultima àncora di salvezza per il ‘José’s’.

Lunedì 7 giugno arrivò in fretta. José era nella sala d’attesa dell’aeroporto ‘Fidel Castro’ di L’Avana, fumando nervosamente una sigaretta con i piedi poggiati sulla grossa valigia. Mamma Francesca, che nonostante oltre sessant’anni di Cuba non aveva dimenticato le abitudini della donna italiana, si era data da fare per preparare al figlio un fagotto zeppo di viveri per il lungo viaggio.  José era abituato alle eccessive premure della donna e aveva accondisceso senza infruttuose opposizioni.

«Volo 771 per Lamezia in preparazione al gate 4B, ripeto, volo internazionale 771 per Lamezia in preparazione al gate 4B» annunciò l’altoparlante. Era il suo aereo. José si alzò dirigendosi stancamente all’imbarco.

Sbarcò in Italia dopo una dozzina d’ore. Era la prima volta che i suoi piedi toccavano il suolo italiano; era la prima volta che il suo naso inalava l’aria della terra in cui erano nati mamma Francesca, papà Pietro, morto qualche anno prima. Lamezia Terme era una città del profondo sud d’Italia, cresciuta esponenzialmente negli ultimi decenni, in cui vivevano gli anziani nonni di José, Paola e Antonio, detto ‘Ntonù; nonni che non avevano mai visto il nipote se non via dispositivi tecnologici.

Il corso d’aggiornamento gastronomico sarebbe stato utile per vedere di persona i nonni per la prima, e probabilmente ultima, volta. José sapeva della malattia che attanagliava la mente e il corpo dell’ultraottantenne nonno ‘Ntonù, ma non aveva mai avuto modo di parlare con un uomo affetto dall’Alzheimer, perciò non sapeva con precisione cosa l’attendeva.

Il taxi percorreva la litoranea a gran velocità, mentre José guardava meditabondo fuori dal finestrino, tuffandosi con lo sguardo nell’increspato e immenso mare calabrese. Arrivato a destinazione stette fermo per qualche istante dinanzi una rustica casetta dipinta di un tenue color rosa antico.

«Via Cimopolea, 2. La via è questa» disse tra sé e sé controllando un foglietto sgualcito. Bussò alla porta. Sentì il pomello muoversi e improvvisamente avvertì un fremito che lo scosse. L’uscio si schiuse.

Una brevilinea signora molto in là con gli anni, con il viso bruscamente segnato dal tempo e i grigi capelli legati con un fazzoletto rosso lo fissò da capo a piede. Poi allargò con lentezza le sottili labbra.

«José! Figlio mio» esclamò abbracciandolo.

Buttati i bagagli sul pavimento, José sospirò. Alzando lo sguardo, incontrò quello della nonna. Lei lo distolse immediatamente ed esclamò:

« Sei tale e quale a Pietro. Vieni. Ti faccio conoscere tuo nonno.»

In una vecchia poltrona, incassato come un paguro nella sua calcarea conchiglia e con i baffi di un tricheco, nonno Antonio ostentava il silenzio degli anziani, quello dignitoso, quasi malinconico, perso in un voluminoso baule di ricordi. Peccato che per lui quella fosse la realtà.

«’Ntonù, c’è Pie… José –avvicinati, caro, così ti vede bene.»

Il vecchio alzò gli occhi scuri e macchiati dalla cataratta. Si illuminò per un secondo.

«Pietro. Figliolo. Come va? Oggi in cucina tutto bene? Ma col fornitore hai risolto?»

In quel momento, José si rese conto del guaio. Il nonno lo scambiava per il padre, vivendo in un passato che non esisteva più, la nonna lo assisteva e ormai anche lei viveva solo in funzione della malattia. Il ristorante non osava immaginare in quale stato di abbandono versasse. Per fortuna, il corso di aggiornamento lo avrebbe distratto da tutto quello sfacelo.

«Senti, ma dalla Chiesa di San’Antonio sei passato? Ti cercava il parroco. Voleva sapere quando partite, tu e Francesca. Sai, bisogna organizzarsi per tempo. E perché non vai a rilassarti un po’a Caronte, prima dello stress pre e post matrimonio? Eh, caro mio, se tutto andasse come dovrebbe andare… ti potevi sposare al Castello o all’Abbazia… peccato che qui nessuno abbia la mia testa, nessuno che voglia curare questa città… siete voi il futuro e il futuro se ne va a CUBA! MALEDETTA RASSEGNAZIONE!»

Il nonno alzò minaccioso il pugno verso la finestra spalancata su Piazza Giulio Regeni. A donna Paola scese una sola lenta lacrima e guardò con disperazione José, scusandosi silenziosamente.

«Nonna. Esco, vorrei vedere la città. Mmm se hai bisogno di qualcosa, ecco il mio numero. Chiama. Grazie. Ciao.» Scarabocchiò distrattamente su un pezzo di carta di pane e lo abbandonò sul tavolo. Uscì. Trasse un profondo respiro e si allontanò. Aria. Gente. Lamezia.

José era spaesato. Tutto troppo in fretta, tutto così complicato. Si accese una sigaretta. Strade, palazzi, caldo. Acqua, si fiondò nel primo bar. Sorseggiando da un bicchiere, scorse foto color seppia. La vecchia Lamezia lo salutava. Quella dei nonni, quella dei suoi giovani genitori emigrati. Tanti i racconti, tante le storie della sua infanzia a cui aveva fatto da sfondo. Ora era diversa. Tram, taxi, semafori, metropolitana, gente che risponde al cellulare in tutte le lingue, turisti, cibo, tanto cibo. Il cameriere, nero ma non perché incazzato, gli chiese in inglese, con un sorriso a trecentosessantadue denti:

«Ehi man, where do you come from?»

«Ma ti sembro inglese?»

Fu così che conobbe Shajib. Un ragazzo originario del Ciad. A due anni si era ritrovato su un barcone “della speranza”. Via Libia, scalo a Lampedusa, trasferimento nel centro di accoglienza “Malgrado tutto” a Lamezia. Da allora, grazie al progetto SPRAR, ai giovani volontari e alle attività annuali del Servizio Civile, si era sempre più sentito a casa e aveva dimenticato gli orrori in mezzo al mare. Ormai faceva il barista da quindici anni, parlava tre lingue (la quarta era il lametino) e si dilettava a montare e smontare i motorini di mezza città. Si diedero appuntamento alle quattro. Gli avrebbe fatto conoscere la nuova Lamezia.

José camminava perso nei suoi pensieri per le strade di una città diversa da quella che aveva immaginato. Shajib era lì, fermo sulla cima delle scale mobili della metropolitana.

«Andiamo» disse.

Lamezia era cresciuta. Francesca, sua madre, l’aveva descritta come una piccola cittadina. José, invece, calpestava le vie di una metropoli moderna, a misura d’uomo. “NICASTRO NORD – USCITA A DESTRA!” tuonò l’altoparlante del bus.

Ed ecco: una collina, un borgo quasi medievale affacciarsi sugli occhi del giovane, ruderi imponenti in cima e qualche centinaio di turisti inglesi sparsi ovunque, tutti identificati da un cappellino rosso e tutti rigorosamente armati di i-pad e cuffioni neri, dai quali si sentiva provenire anche a distanza di metri l’ottuso ronzìo di una voce che riassumeva in poche frasi la storia di ogni luogo aperto alla loro curiosità.

Più giù, tra ulivi secolari che convivevano con installazioni di artisti provenienti da tutte le parti del mondo, una torre imponente, il simbolo di quella città tanto odiata da José, ma ora perfettamente integrata con le sue sensazioni, con una nuova spinta ottimistica. Era il Bastione di Malta. Il parallelepipedo roccioso svettava nel principio del tramonto; la gente ai suoi piedi, seduta intorno a tovaglie bianche, tra tende e fiaccole, attendeva le soste dei valzer dei camerieri, giovani equilibristi della gentilezza.

Era quello che aspettava. Una carica, una motivazione, un’opportunità di riscatto per tutta la sua famiglia: la possibilità per i nonni di tornare alla vita, quella vera, vissuta; per i genitori, di vederlo prendere finalmente le redini della sua carriera, in maniera autonoma rispetto al loro lascito a Cuba.

«Domani, se vuoi, gita fuori porta: ti porto in un nuovo quartiere all’estremità della città. Lamezia è cresciuta a dismisura negli anni, inglobando molte piccole realtà dei dintorni. Potrebbero interessarti le zone di Curinga e Jacurso, il Feudo di Maida… vecchi paesini resuscitati, ripopolati e con centri storici caratteristici. Ti farò entrare nel tronco del Platano più grande che tu abbia mai visto… e poi scenderemo a Terina, lì ti perderai veramente! Terme, scavi, ti riempirai i polmoni di storia!» esclamò Shajib con un altro dei suoi sorrisi.

Ultima tappa: lo Chalet.  Fu lì che si palesò a José il suo destino. Quella ai suoi piedi era la città che avrebbe visto il suo futuro realizzarsi. I suoi genitori l’avevano lasciata con la speranza di poterci tornare e, in qualche assurdo modo, sarebbe stato lui a realizzare il loro sogno: riaprire il vecchio ristorante di famiglia era la soluzione.

Sorrise a se stesso e allo Stromboli sull’orizzonte.