È mai venuto in mente a un qualsiasi governo semi-illuminato che una delle migliori lingue franche, uno dei più forti ponti tra i popoli, uno dei più efficaci collanti tra culture diverse potesse essere la musica? A vedere, a sentire l’orchestra multietnica aretina (OMA per chi non ama dilungarsi) ci si chiede perché una formula del genere non possa o semplicemente non venga applicata su una scala più grande. Eppure stanno lì, davanti a te, e suonano e cantano e scherzano e vengono tutti da storie anche lontanissime tra di loro. C’è chi è scappato dalla guerra civile in Albania, chi dalla ferocia di Escobar in Colombia, chi è “semplicemente” aretino e chi addirittura viene dall’Umbria e sembra abbastanza inserito nel gruppo. E sono solo un sesto della formazione originale, ci parlano di altri musicisti africani, bengalesi, libanesi… Il mondo si fa piccolo e pacifico e si racconta attraverso le sue musiche, che siano in tre quarti o in dieci ottavi poco importa. Sotto gli occhi di noi “civilisti” spettatori, sfilano strumenti di tutti i tipi, dal bouzouki al clarone, dal liuto arabo al salterio, oriente e occidente che si fondono in alchimie che, ve lo giuro miscredenti, funzionano. A legare i frammenti le parole di chi ha vissuto cose bellissime e cose molto brutte, e in entrambi i casi ne parla con semplicità. C’è poco da complicare quando ciò che di per sé appare complicatissimo, la coesione multiculturale, risulta un sacco agevole. E tutto questo ti regala un pomeriggio leggero e intenso, piacevole e riflessivo. A me personalmente, che da poco muovo incerti passi nel complicato mondo dell’accoglienza e del confronto tra culture, regala nuovo fuoco alla fiducia. Eccolo qui, uno dei possibili esiti positivi di un sodalizio tra esseri umani anche molto diversi tra di loro. Che poi sia proprio la musica ad armonizzare così bene tali differenze è ancora più bello.